“La storia della letteratura è piena di biografie più intricate della sua, ma pochi autori sono riusciti a ottenere un canto della non appartenenza più dolente e allo stesso tempo arrabbiato di questo, adeguandolo perfettamente ai tempi: c’è un momento in cui l’emarginazione smette di essere una questione di etnia e torna a essere una questione di classe; in cui il colore delle idee non riesce a essere più rilevante del colore dei soldi…
Nel film The Others, Nicole Kidman era indaffarata a chiudersi ogni porta alle spalle prima di aprirne un’altra per evitare il passaggio dei fantasmi: l’autore di In The Light of What We Know fa esattamente il contrario, continuando a spalancare porte su porte per liberare il condominio postcoloniale dai fantasmi e rivestirlo di una tinta brillante che non ha alcun merito, e nessun difetto, se non di essere letteratura. E lo fa talmente bene che c’è una sola domanda che uno scrittore nelle sue condizioni rischia di odiare più di tutte, persino più di quelle altre due. E cioè: «Dopo un esordio così, che cos’altro puoi scrivere?»”
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Claudia Durastanti
Il Sole 24 Ore